Sale e sangria,
di Pietro De Viola. E io che cito l’autore che cita se
stesso
di Tìndara Rasi
Come ci si incontra, nella vita? Per
background culturale, direi; e per assonanze.
Basta avere un gene
al retrogusto papillogustativo
francese ed è fatta. Non
si può andare a
esplodere di vita in Spagna sei mesi, e fondersi
con catalani, baschi, galleghi.
Se si va lì da
Novara (non quella nordica, ma quella terronea),
se si va lì da
Barcellona
(quella terronea, non
quella esterronea), si
diventa
cittadini del
mondo e le olandesine, le parigine, le castiglionesi (mezzo
maremmane? non castigliane?),
le si intercetta
tutte. E un po’ stufa incontrare anche lì solo italiani,
meridionali, non ci si va
per quello, ma per gustarsi
il mondo. Solo che se
la tua lingua scolastica non è quella
dell’universale egemonia
culturale preponderante, non è giapponese,
né cinese, né
inglese, e tu
parli solamente
francese come L2,
è attraverso quella lente che intercetti involontariamente il mondo.
Da anonimo
ragazzo siciliano
dall’animo puro che si donava a te,
Dio, quel quasi senza nome se non dopo
molte pagine, diventa Miguel o
laconicamente un Miche’, alla napoletana. Non esiste più il
ragazzo di prima. C’è un Virgilio camuffato da bigliettaio che
indica altre possibilità, un Pau, sulla strada che gocciola
bisbigli. E quel mondo immerge, sommerge. Si resta adesi alla
sregolatezza del momento non ordinario, quello fuori dai confini che
porta finalmente lontano
dai noiosissimi clichè
di bravo e tranquillo ragazzo di provincia. Come
succede? Con intenzionalità. Come sedersi a tavolino e dire: ora
scrivo un libro. E inizi, vertiginosamente, studiatamente, stappi la
lattina della creatività che
fa fsss,
l’aria ti riempie il
petto, fresca,
senti il
glicogeno scorrere. Passione pura,
carnale, spregiudicata, sfrenata. Esplosione
di botti della festa di fine anno. Bum.
Questo
è l’intimo segreto che accomuna tutti gli scrittori.
Accade così. Un giorno, improvvisamente, senti
di voler prender
in mano una penna, di riaprire il vecchio computer, di scrivere
qualcosa, di andare nella tua Barcellona di
Spagna personale, nel tuo
Erasmus di ingurgitamento parolistico. Due
righe… see...
ma chi se la
beve… Gira tutto, mani, cervello, idee, lampi, gorgoglii mentali
come un maelstrom.
Magari sei un insegnate che ha sempre amato
la letteratura. E allora scrivi. Scrivi, scrivi, scrivi. Sempre,
giorno e notte, senza fermarti, crollando per la stanchezza,
risvegliandoti con la faccia sulle carte e la penna in mano, e
seguitando a scrivere. Lo fai per mesi, con pochissimi momenti di
pausa… Questo è il ritmo che vuoi dare alla tua vita. Sei mesi
vivendo al massimo, su di giri, come quando dal
messinese del profondo Sud vai a fare quel
tuo Erasmus in Spagna.
Poi arriva lo slang
francese, e no, qualcosa si inceppa, la
vena creativa si affanna, si depotenzia, o si esponentizza.
Quello slancio che ti fa scrivere a fine
pagina 35 frasi intere tutte attaccate,
senza spaziature, diventa doppia interlinea, si adagia, staziona con
circospezione attorno ad una frase, si condensa in laghi di vischiosa
prodezza artistica, appunti-poesie, frasi belle lumeggiate e
lampeggiate, descrizioni arditissime, innovative, classiche. Che
devi, assolutamente devi inserire da qualche parte nel libro, perché
sono troppo belle per lasciarle fuori. Tu
volevi una storia passatempo, dal tuo raptus creativo, qualcosa di
leggero da scrivere nei margini di tempo. Ma la tua creatività ci
tiene a donarti storie un po’ meno miserande tipo solo
sesso, tanto sesso, solamente sesso,
storie un tantino più faticosamente
eterne. E allora ti impantani un po’,
fermi il flusso del maelstrom,
ricerchi, rileggi, rivedi, ripari, rappezzi, inserisci, cancelli,
migliori... Non è l’antifranchista
Celestino che non
ti vuole aiutare a scrivere la tua tesi, a rallentare il tuo estro
poetico. Sei tu da solo a farti questo, tu
che tenti il raffinamento di te, ma perdi di grazia e di slancio e
non vuoi. Di
colpo ci si sente come chi debba seguire il proprio personale
cammino, prestabilito alla nascita su rotaie fisse; chiunque si
allontani dalla propria direzione, anche solo per un breve periodo,
perderà l’allegria del vivere. Uno scrittore che perde la vena, il
ritmo passionale, ha due motivi che lo incastrano, riconducendolo un
attimo fuori dalla propria insensatezza che non lo
fa né mangiare né vivere, o forse mangiare troppo
e vivere troppo,
sragionando, sregolandosi, sdoganandosi
dalla propria provincialità emozionale, dal proprio tutto, dai
binari direzionali.
Due
fondamentali, stupidissimi
motivi.
O l’amore.
O il lavoro.
Succede così anche
all’università. Cominci a rallentare il ritmo degli esami dati,
quando ti innamori davvero:
hai altro a cui pensare, in quel momento. Cominci
a rallentare quando invece di ammuffire dietro lo schermo del
computer, scrivendo perché non hai alternative decenti per le tue
serate fuori paesello, ti innamori e un senso alle serate ben più
viscerale e conturbante lo consegni alla vita, non ai tuoi scritti.
Oppure cominci a rallentare lavorando,
perché la sera torni a casa con le tasche
piene di stipendio ma senza un goccio di pazienza
per due righe letterarie, manco una poesia
breve stile haiku
ti viene di cesellare, vivi di vita di
fatica, non di vita immaginifica e
surrogata.
Così
arriva quella parte, in un libro, che ti ferma il ribollìo
e te ne stai lì a pensare che non scorre più, la storia, come
prima. Eri
andato in
Spagna (o
in brodo di zizzole creativo) per
scovare la Storia (quella
da mettere nei libri, quella letteraria, per
farla tu, la storia letteraria, per essere inciso tra i magnum).
Ma prendi
di mira
la storia, quella con la s
che
non vuole né minuscola né maiuscola, la storia da vivere tutti i
giorni, la storia della quotidianità, quella che ti riporta con i
piedi per terra. La poesia solo a volte si manifesta in strofe, rime
ed endecasillabi sciolti: la
sua natura è di stupirci e bisogna portarsela davanti e dietro,
dentro, sempre. Nella quotidianità, diventa efferatezza, fa solo
perdere tempo in moine. Come dopo che una donna la si è già
conquistata: niente più rose sul letto, niente smielate filastrocche
amorose sussurrate sotto le stelle mentre si sta avvinghiati. Si
passa al sodo, all’atto spurio, adulterino, frettoloso e
spoeticizzato.
Sei a Barcellona,
in Spagna, sei nel pieno di un coraggioso atto scritturale livido di
eccitazione, con il cervello a mille e sbam,
ti accorgi che non parli solo spagnolo,
ma che conosci
anche il francese e che due parole di altro stile nel libro ce le
vuoi mettere, che lei, appena partorita dalla tua fantasia
letteraria, merita udienza papale, e non basta una pagina fitta di
amplessuosità, non basta un ritmo sincopato e velocissimo... Ci
vogliono pagine distese, lenzuola d’amore, stropicciate,
rivisitate, spianate, corteggiate, allungate, cesellate, studiate nei
minimi dettagli. Non puoi scrivere di getto un libro se capisci che è
bello, non puoi sorvolare su un amore se intuisci che è sangue.
Conoscersi tra
autore e personaggio è una nascita
reciproca, nascosta nella donazione di sé, intensa come generatività
continua, conduttiva,
elettrica,
surrettizia. Io
scrivo di te, Viola, mezza francese e mezza
castiglionese maremmana, conoscendo me,
autore Pietro De
Viola. Sono te perché tu sei in me come un
acrostico tra le righe, tu sei ciò che
penso, ciò che escogito dopo
l’introduzione, sei il corpo centrale, sei la mia vena creatrice
non più sgorgante e zampillante, ma incanalata e gestita. Il
costante adeguamento della virilità alla femminilità, può portare
alla creazione, alla poiesi, come
un atto generativo che sfrutta ancora la
primordialità istintuale del basso ventre
(o dell’amigdala)
e non ha bisogno
di studiare sui Power
Point
lo schema fisso della perfetta struttura letteraria.
Pulsione, come
ideazione. Respiro, come creazione. No, non
c’è bisogno di libri da studiare:
quando nasce l’embrione di un libro che lievita spedito, senza
artificiosità,
nasce punto e basta.
Il cemento si impasta con l’acqua, non ha
bisogno di altro, per trasformarsi in malta.
Cosa ci spinge a
tentare altro,
dunque? La
novità dell’amore eterno,
quello che ci vorrebbe consegnare nell’olimpo letterario.
Perché l’amore
letterario tra uno scrittore e un
personaggio, quando si affaccia all’uscio,
è sempre nuovo e la novità ci attrae. L’amore, il
grande motore del mondo, senza
clock da
automi informatici. Qualcosa
del tipo io e lei che togliamo le batterie degli orologi e andiamo
oltre la memoria di massa e
gli ingranaggi dell’orologio carillon. Ma
l’amore per il
nuovo ci confonde, ci destabilizza, ci impastoia e
ci rastrema. Tentiamo di miscelare il
vecchio io con il nuovo, il vecchio diario con il nuovo, il vecchio
stile letterario con il nuovo: l’eterna
lotta di tutti, come tra un primo me e un secondo me, tra lo stronzo
e il disperato. E alla fine, come
prevedibile, non ci raccapezziamo. Ci fermiamo smarriti. Non fluisce
più la linfa nelle vene creative, fa fatica, si incaglia malamente.
Stiamo cinque,
sei anni, con un relitto di libro in mano. Non
osiamo, ci vuole troppa fatica, concentrazione, impegno per
costruirsi letterariamente come un nuovo sé scritturale. Più facile
arrendersi. Alla fine, stremati, non
abbiamo la Storia. E neanche abbiamo fatto la storia. I fogli sono
chiusi nel cassetto della scrivania, rasterizzati,
untuosamente appiccicati. O sono
spersi sul desktop
di un computer, come un collegamento blog
che vuole solo, disperatamente, essere ricliccato
e riletto, riscritto, riaggiustato, completato, finito... solo
quello. Ma l’autore ha perso i trasporti della linea viola, sta
camminando a piedi tra un lavoro che non gli piace e un vento che gli
fa svolazzare il cappotto, mentre le auto
degli altri passano veloci e spostano l’aria dell’esistenza
storica. Ogni tanto la sente, quella folata
creativa. Ma c’è l’ordinarietà e
l’ovvietà che va avanti, c’è il
lavoro… Non
si spiega come faccia a piacerci
questo lavoro materiale, che per noi
scrittori è deleterio come una vita di provincia e ci si sta bene,
ma ogni tanto, per riprendere passione aurale
ci vuole la presa del computer attaccata
alla corrente elettrica, ci vuole la follia della gioventù bruciata
tutta in sei mesi d’Erasmus in Spagna. Invece, si
smette di prolificare, di produrre, come
una grande negazione di se stessi. Un bluff.
Se si continua a sprizzare
passione da tutti i pori, il figlio viene partorito,
l’atto poietico diventa compimento. Ma l’altro, il
nuovo che appare, può essere anche
inferno. E la frase di rito giustificatoria
è allora: non ho tempo, perché
mi assilli, creatività mia amata? Ho
provato, ma non ci riesco, non mi appassiono
più.
Probabilmente ci
è sempre mancato ‘sto figlio maschio,
come al vecchio antifranchista,
ci è mancata la conoscenza della lingua
inglese, l’editore giusto, la verve, un pizzico di figlio che ci
faccia genitori di queste quattro chiacchiere con il passato, di
queste carte scritte, di questi racconti da stampare senza
etichettarli come
files
in disuso. O forse no, ce l’abbiamo
sempre in
embrione, ‘sto figlio, ma
non quagliamo, non partoriamo. Coviamo e basta.
Una sorta di aborto letterario, che impiega
anni a diventare libro, storia, actus
vivendi.
Ha un suolo, ma non attecchisce, non
fruttifica, è
apolide e senza fioritura. È
necessario uno spirito superiore per elevarsi dalle secche volgari e
ordinarie del desiderio di una bella
auto, un conto in banca rispettabile, degli abiti, una casa, dei
viaggi con gli amici. È necessario uno spirito raffinato per
concentrarsi sulla vera essenza delle cose e liberarsi dal lusso.
Ci
vuole sangria, alcolica, spumeggiante, ma anche cristalli solidi di
sale, piedi per terra, fatica, impegno dopo quella follia semestrale
di passione letteraria, di corteggiamento delle meningi in amplesso
con periferiche di input
tipo tastiera wireless.
Attorno
c’è un coro di fans letterari che
aspetta: esci da questo corpo fisico, da
questa terraglia, da questa ordinarietà burocratica; diventa
luce, diventa parola, diventa vicenda. Cerca
di farlo per le
migliaia e migliaia di lettori come me, le
migliaia
e migliaia di nessuni,
che
vivono di digressione speculare e di intenzionalità
intertestuale catulliana,
o che
aspettano un
buon epillio
alessandrino. Se
un colore come il viola diventa smorto e non ha più nemmeno senso,
Viola
muore davvero. Viola l’autore, lo
sphragis.
C’è
sempre Nicandro
e Catullo
classico
nella
tecnica
dell’acrostico sphragistico
e
dell’arte
allusiva
che cita il citato autore,
sei
in ottima compagnia e
tu lo sai che io lo so, che
a me non la dai a bere, scrittore.
Tu
non sei superficiale o modernamente poco letterato. Fingi di essere
leggerezza scritturale, ma hai limato molto sotto humus;
soltanto,
senza darlo a vedere. Vuoi
giocare con me? Giochiamo. Quante citazioni di te ritrovi in questo
mio scritto? Compito a casa: restituiscimi l’elaborato, mettendo il
corsivo alle frasi citate da me di te. Se vuoi giocare, io ci sto. Ma
l’arte allusiva
dei grandi classici tu sottobanco me l’hai data. Non sei uno
scrittore qualunque. E io… non sono un lettore qualunque. Ti ho
intercettato. Vedi
che ti sgamo, io con il mio nessuni?
Vedi
che se ci credi, qualcuno ti legge davvero dentro? Che ti restituisce
il tuo impegno scritturale?
Non
restare dunque
imprigionato in altre
impasse (o empasse?) Perché
davvero,
è
vero: in
un certo senso, se osservate da una particolare prospettiva, certe
scene possono
persino essere considerate romantiche. E dunque
non solo possono,
ma che davvero, alzo i calici e brindo, siano
sul serio, tra congiuntivi e concessivi. Falla
risuonare
la tua parte creativa, la tua viola
in Erasmus, sennò
sarà lei prima o poi a fare fugone
e accollarsi il suo bel gbecspaps,
traducendosi
in fasulla Layla.
Accetta
il germinatico che si fa prodotto fecondo.
Non stare qui a
pensare,
autore. Non
inghipparti altri
dieci anni.
Quante
parole hai sprecato, ognuna diversa dall’unica che avrei voluto
sentirmi dire… Invece
siamo vivi e siamo molto di più che noi due, qui e adesso,
in una vecchia foto nel cassetto. Siamo
per sempre, siamo ovunque, camminando di spalle, in una foto mossa,
presa di notte.
Senti,
che ti dice Viola
la creativa in te?
L’amore
non muore, se vai a riprendertelo, facendo davvero il matto e
l’artista. Tu
aspetti
sempre e solo che sia la tua creatività che ad un certo punto si
scoccia della tua quotidianità e ti pianta lì una bizza, un
escamotage
per
riacciuffare di passione il suo scrittore impantanato. Guarda che lei
lo fa. Si finge
morta.
E quando uno è messo alle strette, credendo il computer con tutti i
files andato
definitivamente in corto circuito, quando vedi la tua parte razionale
fagocitarti così tanto da farti improvvisamente esplodere, allora…
messo alle strette, piangi il lutto del tuo aborto e con rabbia
decisa, riprendi. Dal
fondo, riprendi. Una
vecchia foto non va lasciata a disperdere colori e sbiadire nel
cassetto, va fatta vivere, la favola va conclusa
di vissero
felici e contenti
davvero, e
ne risenti l’urgenza tremenda.
E ti
dai del demente, per tutto il tempo perso. Anni, accidenti.
Invece, la
creatività non va fatta prostituire in nome dell’ordinarietà.
Ogni fotogramma,
ogni fatto, anche quello miserrimo
di cinque, dieci anni fa, vive, se tu lo
rendi eterno. Scrivi. Scrivi
punto e basta. Che se la guardo da questa prospettiva, tu cerchi
l’esotico di sangria español
col sale, lei si assesta sulla crème
brûlée. Ma
tutte le vite, tutte le scene, se osservate da una particolare
prospettiva, possono essere considerate romantiche e chiederci
dall’atto della loro trascrizione su libro: cari
miei amichevoli fan… A
proposito: sapevate di essere già in tre? Sicuro siete finiti qui
per sbaglio. Ok, fa nulla, vi perdono. Però tornate, eh?
E noi rispondiamo
che torniamo. Noi torniamo, autore. Siamo
francesemente
romantici. Pendendo
dalla tua tastiera di pc, dal tuo prossimo flusso
di estro creativo da recensire,
aspettiamo il tuo scribendum
est e noi la
nostra parte di scena da vivere,
leggendoti.
Non farci agonizzare di troppa attesa.
Copyright 2021 – Tìndara Rasi
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Dopo
l'enorme successo di "Alice senza niente", pubblicato
nel 2011 da
Terre di Mezzo, Pietro De Viola torna
alla ribalta con
"Sale e sangria", edito da Oligo Editore. De Viola ha
vissuto per diverso tempo a Grosseto. Attualmente vive e lavora in
Lombardia.