giovedì 22 luglio 2021

 

TRA GRAVITAS E LEGGEREZZA, LA VITA IN CAMMINO

di Tìndara RASI

Leggendo “Ogni passo fa nascere una brezza. Rinascere sul cammino di San Francesco”, di Eric Minetto, edito da Lit Edizioni – Edizioni dei Camini, non si sta fermi nel proprio cantuccio, sulla propria comoda poltroncina: i piedi fremono, la mente viaggia. Dopo un intervento al piede, l’autore ha infatti deciso di attuare una sorta di gesto di ringraziamento per la guarigione avvenuta, completando per cammino immersivo, per cammino suppletivo, il tratto di strada che San Francesco, malato e morente, non riuscì a compiere negli ultimi momenti della sua vita. Minetto, guarito dal suo piede malato, non facendo nemmeno i conti con l’analisi delle sue stesse resistenze umane, concepisce e mette in atto questo ex-voto ambizioso: prestare follemente i suoi piedi a San Francesco per fare con lui/per lui/in vece sua il tratto di strada che da La Verna porta ad Assisi. Non si tratta di mezz’ora di cammino, ma di giorni interi al posto di. E in quell’interscambio non consecutivo ma partecipativo, trascina anche il lettore con una sorta di actuosa participatio missale. La sua impresa rimanda alla mistica della riparazione, quella dei cristiani che “riparano” ai patimenti di Cristo, che contribuiscono al corpo mistico patiens. Parte di un tutto più grande, dunque, anche questo usarsi a “prestito” umano per un Santo che lasciò qui il suo fisico in pegno, elevandosi lassù a etereità sacra. Minetto rende omaggio alla contemporaneità reale di Franciscus passus assisiensis, usando l’unica cosa che lo rende pro-alteritas, bene mediazionale infrapersonale: il suo stesso corpo, arti, pelle, occhi, piedi. Ma occupandosi di yoga e di scienze orientali, nel cammino intrapreso mette in campo anche strategie di mindfulness, di counseling, di teorie orientali, di spiritualità (nel senso più esteso che la mera religio), e di percezione corporea del sé, tutto nei giusti dosaggi. Il suo non è un libro cattolico cristiano in senso stretto, dunque. É un percorso: il piede va avanti a volte saldo, a volte vacillante, sulla concretezza del “terreno”, quello fisico, fatto di pietre sgranellate e di pulviscoli, ma anche quello della storicità umano-temporale e della gravità terrestre corporea. Poi però non rimane “a terra”: viaggia anche sulla “concretezza psichica” dell’oltre, del pensiero “filosofico”, dell’immanente mentale. L’autore non intende donare un libro cartaceo a un lettore, ma un bene infraumano, un riflesso di pensiero applicato, di allineamento cosmico oblativo. Il “battito universale” oltre la realtà sensibile, che diventa respiro pandemico. L’allaccio mentale, l’energia interpsichica tra chi è da una parte e scrive, e chi è dall’altra parte e legge. Per donare questo ad altri, scarnifica non solo se stesso. Scarnifica il proprio processo mentale che respira di fresco senza “proposizioni consecutive” e ridondanti, senza zaini pesanti sulle spalle e tra la lingua. Scarnifica la propria scrittura, che si slava sotto la pioggia, per lasciare intatta una sola lettera indicatrice del percorso, una Tau gialla. Non ci vogliono eccessi, gli suggerisce San Francesco, infatti. Basta un lenzuolo, per scrivere. Basta una lettera per indicare il percorso, per darci il “libro” che necessitiamo. E se si ascolta bene, è il vento che sfoglia le pagine, smuovendo le foglie degli alberi attorno: non ci serve altro. Cosa c’è in quella brezza, in quel respiro? C’è la creazione che geme, soffre ed è in travaglio (cfr  Rm 8,22) perché non riesce a vivere il miracolo di “camminare sospesa sul vuoto” e nel contempo restare appoggiata sulla terra, “lieve, però, come se si camminasse sul cielo”. C’è la creazione che attende di unirsi in un unico afflato liberato da pesi inutili. E c’è quel vento spirituale, quella brezza leggera e naturale che arriva e sospinge lievemente, eleva, afferra, alleggerisce, permette il volo… Se siamo nella giusta corrente, ne veniamo sospinti senza neanche accorgercene e voliamo anche noi, leggeri tra i cirrocumuli.

San Francesco ci è riuscito: non è nella cerchia dei beati per un’onorificenza e un fastigio pinnacolare personale, ma per “montare di guardia alla bellezza del creato”. E da lì, il maestro santo prende dal Santo Maestro e consegna al pellegrino camminatore insegnamenti ruvidi ma efficaci, affinché li rimandi ad altri, in un sistema di diffusività fraterna della “semplicità”, parola a lui tanto cara. Aprendo la porta francescana del suo memento terreno, non si trova infatti nessuna pietra scintillante e preziosa, nessuna ricchezza materiale, ma il sasso nudo, il corpo nudo. Nel cammino, lo zaino troppo pesante storce la colonna vertebrale, gli scarponi scarnificano i piedi. Ci vuole lievità e slowness, in modo da riconoscere un ramo innocuo da un serpente pericoloso disteso in mezzo alla trazzera. Bisogna essere presenti a se stessi, non avere l’urgenza della meta finale, ma quella del percorso da godersi hic et nunc. Per San Francesco l’essenzialità era un bastone, un sandalo, un saio ruvido cucito e ricucito con la ginestra, uno con il cappuccio per ripararsi dalla luce eccessiva, visto che stava diventando cieco e aveva problemi agli occhi. Non bisogna “appesantirsi inutilmente durante un viaggio, quello della vita… ma imparare ad alleggerirsi, a farsi respiro”. Bisogna ricercare “la felicità a prescindere” buttando via le zavorre che non servono, dice l’autore. D’altronde “Francesco è in ogni passo che in piena coscienza decidiamo di non fare”, non in quello che decidiamo di fare o in tutto ciò che decidiamo di “trattenere”. Questo non significa che materialità, intenzione e volizione siano da demonizzare, ma che se scardiniamo schemi di filodossia comune, comprendiamo che tutto concorre al bene interiore e spirituale a volte anche in modo curiosamente apofatico. È in questa struttura di senso che alla fine lo scrittore in cammino, decide di non fissare nessuna bandierina sul suo Google Maps personale, raggiungendo mete fin troppo commerciali e inflazionate. Sa che siamo eterei e partecipativi di un’unica energia viva che eternizza i nostri passi, se smettiamo di pesare sulla polvere con una gràvitas che ci rallenta soltanto. La meta non è qui. O forse, la meta non esiste, esiste la vita ed è perenne. Esiste in quel lieve insufflare durante il krònos le particelle di ossigeno buono che ci consegna il polmone dell’universo. Ed esiste in quel gesto semplice e molto francescano di spandere a nostra volta, al respiro storico creaturale, al kàiros oltre l’archeo, il profumo di citronella dei nostri vasi personali (cfr San Paolo, 2Cor 2,15), eleganti e preziose sentinelle a guardia dell’aere sui balconi delle case.

Original by Tìndara RASI

venerdì 9 aprile 2021

 

Sale e sangria, di Pietro De Viola. E io che cito l’autore che cita se stesso

di Tìndara Rasi




Come ci si incontra, nella vita? Per background culturale, direi; e per assonanze.

Basta avere un gene al retrogusto papillogustativo francese ed è fatta. Non si può andare a esplodere di vita in Spagna sei mesi, e fondersi con catalani, baschi, galleghi. Se si va lì da Novara (non quella nordica, ma quella terronea), se si va lì da Barcellona (quella terronea, non quella esterronea), si diventa cittadini del mondo e le olandesine, le parigine, le castiglionesi (mezzo maremmane? non castigliane?), le si intercetta tutte. E un po’ stufa incontrare anche lì solo italiani, meridionali, non ci si va per quello, ma per gustarsi il mondo. Solo che se la tua lingua scolastica non è quella dell’universale egemonia culturale preponderante, non è giapponese, cinese, inglese, e tu parli solamente francese come L2, è attraverso quella lente che intercetti involontariamente il mondo.

Da anonimo ragazzo siciliano dall’animo puro che si donava a te, Dio, quel quasi senza nome se non dopo molte pagine, diventa Miguel o laconicamente un Miche’, alla napoletana. Non esiste più il ragazzo di prima. C’è un Virgilio camuffato da bigliettaio che indica altre possibilità, un Pau, sulla strada che gocciola bisbigli. E quel mondo immerge, sommerge. Si resta adesi alla sregolatezza del momento non ordinario, quello fuori dai confini che porta finalmente lontano dai noiosissimi clichè di bravo e tranquillo ragazzo di provincia. Come succede? Con intenzionalità. Come sedersi a tavolino e dire: ora scrivo un libro. E inizi, vertiginosamente, studiatamente, stappi la lattina della creatività che fa fsss, l’aria ti riempie il petto, fresca, senti il glicogeno scorrere. Passione pura, carnale, spregiudicata, sfrenata. Esplosione di botti della festa di fine anno. Bum.

Questo è l’intimo segreto che accomuna tutti gli scrittori. Accade così. Un giorno, improvvisamente, senti di voler prender in mano una penna, di riaprire il vecchio computer, di scrivere qualcosa, di andare nella tua Barcellona di Spagna personale, nel tuo Erasmus di ingurgitamento parolistico. Due righe… see... ma chi se la beve… Gira tutto, mani, cervello, idee, lampi, gorgoglii mentali come un maelstrom. Magari sei un insegnate che ha sempre amato la letteratura. E allora scrivi. Scrivi, scrivi, scrivi. Sempre, giorno e notte, senza fermarti, crollando per la stanchezza, risvegliandoti con la faccia sulle carte e la penna in mano, e seguitando a scrivere. Lo fai per mesi, con pochissimi momenti di pausa… Questo è il ritmo che vuoi dare alla tua vita. Sei mesi vivendo al massimo, su di giri, come quando dal messinese del profondo Sud vai a fare quel tuo Erasmus in Spagna.

Poi arriva lo slang francese, e no, qualcosa si inceppa, la vena creativa si affanna, si depotenzia, o si esponentizza. Quello slancio che ti fa scrivere a fine pagina 35 frasi intere tutte attaccate, senza spaziature, diventa doppia interlinea, si adagia, staziona con circospezione attorno ad una frase, si condensa in laghi di vischiosa prodezza artistica, appunti-poesie, frasi belle lumeggiate e lampeggiate, descrizioni arditissime, innovative, classiche. Che devi, assolutamente devi inserire da qualche parte nel libro, perché sono troppo belle per lasciarle fuori. Tu volevi una storia passatempo, dal tuo raptus creativo, qualcosa di leggero da scrivere nei margini di tempo. Ma la tua creatività ci tiene a donarti storie un po’ meno miserande tipo solo sesso, tanto sesso, solamente sesso, storie un tantino più faticosamente eterne. E allora ti impantani un po’, fermi il flusso del maelstrom, ricerchi, rileggi, rivedi, ripari, rappezzi, inserisci, cancelli, migliori... Non è l’antifranchista Celestino che non ti vuole aiutare a scrivere la tua tesi, a rallentare il tuo estro poetico. Sei tu da solo a farti questo, tu che tenti il raffinamento di te, ma perdi di grazia e di slancio e non vuoi. Di colpo ci si sente come chi debba seguire il proprio personale cammino, prestabilito alla nascita su rotaie fisse; chiunque si allontani dalla propria direzione, anche solo per un breve periodo, perderà l’allegria del vivere. Uno scrittore che perde la vena, il ritmo passionale, ha due motivi che lo incastrano, riconducendolo un attimo fuori dalla propria insensatezza che non lo fa né mangiare né vivere, o forse mangiare troppo e vivere troppo, sragionando, sregolandosi, sdoganandosi dalla propria provincialità emozionale, dal proprio tutto, dai binari direzionali.

Due fondamentali, stupidissimi motivi.

O l’amore.

O il lavoro.

Succede così anche all’università. Cominci a rallentare il ritmo degli esami dati, quando ti innamori davvero: hai altro a cui pensare, in quel momento. Cominci a rallentare quando invece di ammuffire dietro lo schermo del computer, scrivendo perché non hai alternative decenti per le tue serate fuori paesello, ti innamori e un senso alle serate ben più viscerale e conturbante lo consegni alla vita, non ai tuoi scritti. Oppure cominci a rallentare lavorando, perché la sera torni a casa con le tasche piene di stipendio ma senza un goccio di pazienza per due righe letterarie, manco una poesia breve stile haiku ti viene di cesellare, vivi di vita di fatica, non di vita immaginifica e surrogata.

Così arriva quella parte, in un libro, che ti ferma il ribollìo e te ne stai lì a pensare che non scorre più, la storia, come prima. Eri andato in Spagna (o in brodo di zizzole creativo) per scovare la Storia (quella da mettere nei libri, quella letteraria, per farla tu, la storia letteraria, per essere inciso tra i magnum). Ma prendi di mira la storia, quella con la s che non vuole né minuscola né maiuscola, la storia da vivere tutti i giorni, la storia della quotidianità, quella che ti riporta con i piedi per terra. La poesia solo a volte si manifesta in strofe, rime ed endecasillabi sciolti: la sua natura è di stupirci e bisogna portarsela davanti e dietro, dentro, sempre. Nella quotidianità, diventa efferatezza, fa solo perdere tempo in moine. Come dopo che una donna la si è già conquistata: niente più rose sul letto, niente smielate filastrocche amorose sussurrate sotto le stelle mentre si sta avvinghiati. Si passa al sodo, all’atto spurio, adulterino, frettoloso e spoeticizzato.

Sei a Barcellona, in Spagna, sei nel pieno di un coraggioso atto scritturale livido di eccitazione, con il cervello a mille e sbam, ti accorgi che non parli solo spagnolo, ma che conosci anche il francese e che due parole di altro stile nel libro ce le vuoi mettere, che lei, appena partorita dalla tua fantasia letteraria, merita udienza papale, e non basta una pagina fitta di amplessuosità, non basta un ritmo sincopato e velocissimo... Ci vogliono pagine distese, lenzuola d’amore, stropicciate, rivisitate, spianate, corteggiate, allungate, cesellate, studiate nei minimi dettagli. Non puoi scrivere di getto un libro se capisci che è bello, non puoi sorvolare su un amore se intuisci che è sangue. Conoscersi tra autore e personaggio è una nascita reciproca, nascosta nella donazione di sé, intensa come generatività continua, conduttiva, elettrica, surrettizia. Io scrivo di te, Viola, mezza francese e mezza castiglionese maremmana, conoscendo me, autore Pietro De Viola. Sono te perché tu sei in me come un acrostico tra le righe, tu sei ciò che penso, ciò che escogito dopo l’introduzione, sei il corpo centrale, sei la mia vena creatrice non più sgorgante e zampillante, ma incanalata e gestita. Il costante adeguamento della virilità alla femminilità, può portare alla creazione, alla poiesi, come un atto generativo che sfrutta ancora la primordialità istintuale del basso ventre (o dell’amigdala) e non ha bisogno di studiare sui Power Point lo schema fisso della perfetta struttura letteraria. Pulsione, come ideazione. Respiro, come creazione. No, non c’è bisogno di libri da studiare: quando nasce l’embrione di un libro che lievita spedito, senza artificiosità, nasce punto e basta. Il cemento si impasta con l’acqua, non ha bisogno di altro, per trasformarsi in malta.

Cosa ci spinge a tentare altro, dunque? La novità dell’amore eterno, quello che ci vorrebbe consegnare nell’olimpo letterario. Perché l’amore letterario tra uno scrittore e un personaggio, quando si affaccia all’uscio, è sempre nuovo e la novità ci attrae. L’amore, il grande motore del mondo, senza clock da automi informatici. Qualcosa del tipo io e lei che togliamo le batterie degli orologi e andiamo oltre la memoria di massa e gli ingranaggi dell’orologio carillon. Ma l’amore per il nuovo ci confonde, ci destabilizza, ci impastoia e ci rastrema. Tentiamo di miscelare il vecchio io con il nuovo, il vecchio diario con il nuovo, il vecchio stile letterario con il nuovo: l’eterna lotta di tutti, come tra un primo me e un secondo me, tra lo stronzo e il disperato. E alla fine, come prevedibile, non ci raccapezziamo. Ci fermiamo smarriti. Non fluisce più la linfa nelle vene creative, fa fatica, si incaglia malamente. Stiamo cinque, sei anni, con un relitto di libro in mano. Non osiamo, ci vuole troppa fatica, concentrazione, impegno per costruirsi letterariamente come un nuovo sé scritturale. Più facile arrendersi. Alla fine, stremati, non abbiamo la Storia. E neanche abbiamo fatto la storia. I fogli sono chiusi nel cassetto della scrivania, rasterizzati, untuosamente appiccicati. O sono spersi sul desktop di un computer, come un collegamento blog che vuole solo, disperatamente, essere ricliccato e riletto, riscritto, riaggiustato, completato, finito... solo quello. Ma l’autore ha perso i trasporti della linea viola, sta camminando a piedi tra un lavoro che non gli piace e un vento che gli fa svolazzare il cappotto, mentre le auto degli altri passano veloci e spostano l’aria dell’esistenza storica. Ogni tanto la sente, quella folata creativa. Ma c’è l’ordinarietà e l’ovvietà che va avanti, c’è il lavoro… Non si spiega come faccia a piacerci questo lavoro materiale, che per noi scrittori è deleterio come una vita di provincia e ci si sta bene, ma ogni tanto, per riprendere passione aurale ci vuole la presa del computer attaccata alla corrente elettrica, ci vuole la follia della gioventù bruciata tutta in sei mesi d’Erasmus in Spagna. Invece, si smette di prolificare, di produrre, come una grande negazione di se stessi. Un bluff. Se si continua a sprizzare passione da tutti i pori, il figlio viene partorito, l’atto poietico diventa compimento. Ma l’altro, il nuovo che appare, può essere anche inferno. E la frase di rito giustificatoria è allora: non ho tempo, perché mi assilli, creatività mia amata? Ho provato, ma non ci riesco, non mi appassiono più. Probabilmente ci è sempre mancato ‘sto figlio maschio, come al vecchio antifranchista, ci è mancata la conoscenza della lingua inglese, l’editore giusto, la verve, un pizzico di figlio che ci faccia genitori di queste quattro chiacchiere con il passato, di queste carte scritte, di questi racconti da stampare senza etichettarli come files in disuso. O forse no, ce l’abbiamo sempre in embrione, ‘sto figlio, ma non quagliamo, non partoriamo. Coviamo e basta. Una sorta di aborto letterario, che impiega anni a diventare libro, storia, actus vivendi. Ha un suolo, ma non attecchisce, non fruttifica, è apolide e senza fioritura. È necessario uno spirito superiore per elevarsi dalle secche volgari e ordinarie del desiderio di una bella auto, un conto in banca rispettabile, degli abiti, una casa, dei viaggi con gli amici. È necessario uno spirito raffinato per concentrarsi sulla vera essenza delle cose e liberarsi dal lusso. Ci vuole sangria, alcolica, spumeggiante, ma anche cristalli solidi di sale, piedi per terra, fatica, impegno dopo quella follia semestrale di passione letteraria, di corteggiamento delle meningi in amplesso con periferiche di input tipo tastiera wireless.

Attorno c’è un coro di fans letterari che aspetta: esci da questo corpo fisico, da questa terraglia, da questa ordinarietà burocratica; diventa luce, diventa parola, diventa vicenda. Cerca di farlo per le migliaia e migliaia di lettori come me, le migliaia e migliaia di nessuni, che vivono di digressione speculare e di intenzionalità intertestuale catulliana, o che aspettano un buon epillio alessandrino. Se un colore come il viola diventa smorto e non ha più nemmeno senso, Viola muore davvero. Viola l’autore, lo sphragis. C’è sempre Nicandro e Catullo classico nella tecnica dell’acrostico sphragistico e dell’arte allusiva che cita il citato autore, sei in ottima compagnia e tu lo sai che io lo so, che a me non la dai a bere, scrittore. Tu non sei superficiale o modernamente poco letterato. Fingi di essere leggerezza scritturale, ma hai limato molto sotto humus; soltanto, senza darlo a vedere. Vuoi giocare con me? Giochiamo. Quante citazioni di te ritrovi in questo mio scritto? Compito a casa: restituiscimi l’elaborato, mettendo il corsivo alle frasi citate da me di te. Se vuoi giocare, io ci sto. Ma l’arte allusiva dei grandi classici tu sottobanco me l’hai data. Non sei uno scrittore qualunque. E io… non sono un lettore qualunque. Ti ho intercettato. Vedi che ti sgamo, io con il mio nessuni? Vedi che se ci credi, qualcuno ti legge davvero dentro? Che ti restituisce il tuo impegno scritturale?

Non restare dunque imprigionato in altre impasse (o empasse?) Perché davvero, è vero: in un certo senso, se osservate da una particolare prospettiva, certe scene possono persino essere considerate romantiche. E dunque non solo possono, ma che davvero, alzo i calici e brindo, siano sul serio, tra congiuntivi e concessivi. Falla risuonare la tua parte creativa, la tua viola in Erasmus, sennò sarà lei prima o poi a fare fugone e accollarsi il suo bel gbecspaps, traducendosi in fasulla Layla. Accetta il germinatico che si fa prodotto fecondo. Non stare qui a pensare, autore. Non inghipparti altri dieci anni. Quante parole hai sprecato, ognuna diversa dall’unica che avrei voluto sentirmi dire… Invece siamo vivi e siamo molto di più che noi due, qui e adesso, in una vecchia foto nel cassetto. Siamo per sempre, siamo ovunque, camminando di spalle, in una foto mossa, presa di notte. Senti, che ti dice Viola la creativa in te? L’amore non muore, se vai a riprendertelo, facendo davvero il matto e l’artista. Tu aspetti sempre e solo che sia la tua creatività che ad un certo punto si scoccia della tua quotidianità e ti pianta lì una bizza, un escamotage per riacciuffare di passione il suo scrittore impantanato. Guarda che lei lo fa. Si finge morta. E quando uno è messo alle strette, credendo il computer con tutti i files andato definitivamente in corto circuito, quando vedi la tua parte razionale fagocitarti così tanto da farti improvvisamente esplodere, allora… messo alle strette, piangi il lutto del tuo aborto e con rabbia decisa, riprendi. Dal fondo, riprendi. Una vecchia foto non va lasciata a disperdere colori e sbiadire nel cassetto, va fatta vivere, la favola va conclusa di vissero felici e contenti davvero, e ne risenti l’urgenza tremenda. E ti dai del demente, per tutto il tempo perso. Anni, accidenti.

Invece, la creatività non va fatta prostituire in nome dell’ordinarietà. Ogni fotogramma, ogni fatto, anche quello miserrimo di cinque, dieci anni fa, vive, se tu lo rendi eterno. Scrivi. Scrivi punto e basta. Che se la guardo da questa prospettiva, tu cerchi l’esotico di sangria español col sale, lei si assesta sulla crème brûlée. Ma tutte le vite, tutte le scene, se osservate da una particolare prospettiva, possono essere considerate romantiche e chiederci dall’atto della loro trascrizione su libro: cari miei amichevoli fan… A proposito: sapevate di essere già in tre? Sicuro siete finiti qui per sbaglio. Ok, fa nulla, vi perdono. Però tornate, eh?

E noi rispondiamo che torniamo. Noi torniamo, autore. Siamo francesemente romantici. Pendendo dalla tua tastiera di pc, dal tuo prossimo flusso di estro creativo da recensire, aspettiamo il tuo scribendum est e noi la nostra parte di scena da vivere, leggendoti.

Non farci agonizzare di troppa attesa.



Copyright 2021 – Tìndara Rasi

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Dopo l'enorme successo di "Alice senza niente", pubblicato nel 2011 da Terre di Mezzo, Pietro De Viola torna alla ribalta con "Sale e sangria", edito da Oligo Editore. De Viola ha vissuto per diverso tempo a Grosseto. Attualmente vive e lavora in Lombardia.

sabato 26 dicembre 2020

DU’ PAROLE, SAN GIUSEPPE

sulla scia della lettera apostolica Patris Corde

di Tìndara Rasi



L’uomo che una mattina d’incerta primavera, in un paese del Medio Oriente vicino al confine siriaco, spingeva un asino carico di legname e di attrezzi su per una strada locale, non aveva nulla in grado di attirare l’attenzione.”1

Ma fu l’uomo della svolta. L’anonimo della rivoluzione.

Di quale rivoluzione?

Di quella sociale e familiare.

Di quella universale, ecumenica, mondiale.

Per questo, due sono le parole che mi colpiscono, in relazione alla figura di San Giuseppe.

La prima è “giusto”.

I giusti sono coloro i quali vanno controcorrente, scardinano le abitudini, le scelte ideologiche e politiche, la vita sociale. Dopo un momento di iniziale titubanza, Giuseppe prese come sposa una ragazza incinta. Non la fece lapidare, non ripudiò la sua fidanzata: la sposò.

Non era quello, l’uso comune del tempo.

Per comprendere il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell’antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva 12 o 13 anni. La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era già ‘moglie’ del suo futuro sposo e per questo ogni infedeltà era considerata già adulterio. La seconda fase invece comprendeva la solenne celebrazione nuziale col trasferimento festoso alla casa dello sposo, secondo quella vivace sceneggiatura di luci, canti, danze, banchetti evocata anche da Gesù nella sua parabola delle vergini stolte e sagge (Matteo 25, 1-13). Il racconto che abbiamo prima letto si colloca appunto nella prima fase, quella del fidanzamento: «prima che andassero a vivere insieme», Maria «si trovò incinta».”2

Giuseppe superò i pregiudizi: rivoluzionò un modo di pensare, diede un balzo in avanti alla storia umana. Prima si faceva così, si ripudiava la fidanzata rimasta incinta da non si sa chi, la si lasciava addirittura lapidare a morte, a colpi di pietre sul cranio. Dopo, non tutti, ma certamente alcuni, si rifecero alla sensibilità di Giuseppe, alla sua nuova logica sociale. Si può abbandonare al proprio destino una ragazza incinta che lo è per azione dello Spirito Santo? Se lo chiese, certamente, Giuseppe. E dopo di lui, chissà quanti iniziarono a fare il suo stesso tipo di ragionamento.

San Giuseppe era un precursore innovativo degli stili sociali della zona. Lui sognava. Era una sorta di uomo che vedeva “oltre” le realtà contingenti. I suoi sogni, le sue preveggenze, i segnali degli angeli che lo guidavano, lo portarono a scegliere in diverse occasioni, strade nuove e diverse.

Lo fece, scappando in Egitto dall’oppressione di Erode.

Ma lo fece anche simbolicamente aprendo quella nuova moda sociale.

Non era un performer, non era un influencer, non era politico; era un uomo sano, concreto, solido, quotidiano. Questi sono i giusti dei pogrom che salvano vite. Lui salvò quella di Maria, fece la scelta controcorrente che nessuno si aspettava. Chi salva una vita, salva il mondo intero...

A indirizzarlo verso quella scelta fu la sua coscienza. Un sogno è la coscienza parlante. Un angelo è il grillo parlante di Dio.

- Ascolta, Giuseppe, figlio di Davide e Acaz, di Ezechia e di Giacobbe. Egli ti chiede: vuoi tu, che hai fatto la rinuncia insieme a lei, rimanere presso di lei come l’ombra del Padre...? Acconsenti?

Giuseppe sedette di nuovo. Il profumo del fiore si spandeva verso di lui nell’oscurità. Sul suo capo scintillavano le stelle. Il silenzio regnava. Si passò le dita sul viso, come ad assicurarsi che non avesse cambiato la sua forma.

- Ci riuscirò? – sussurrò. – La amo tanto…

- Prendila in casa tua…

Le ultime parole risonarono nel silenzio. Quando si levò in piedi… strinse le mani al viso. Aveva pregato tante volte nella vita: «Rivelami, Signore, la Tua volontà, indicami quel che devo fare. Attenderò paziente il tuo comando». Aveva atteso tanti anni. Gli pareva di sapere che cosa stesse aspettando. Quello che attendeva era giunto.”3

Giuseppe era pronto a quella rivoluzione silenziosa. Era pronto al suo ruolo di “giusto” in mezzo agli ingiusti.

Maria disse:

La mia coscienza è chiara solo su un punto. Il dolore, che nessuno proibisce ad una madre. Questa è la preghiera che ho innalzato fin dal primo momento della tua esistenza su questa terra: «Signore, fa’ che in questo seme di luce che mi hai donato, mi sia resa comune anche la parte dell’ombra.»”4

Così pensa la Madre di Dio della sua stessa vicenda.

Lo stesso valse per il suo sposo Giuseppe. Uomo giusto, guidato da una coscienza giusta, che non rifiuta la tenebra, l’onta, la derisione comune, il coraggio di far valere la sua scelta nonostante tutto. “In questo seme di luce che mi hai donato, mi sia resa comune anche la parte dell’ombra”, per lui si capovolge: “In questa parte dell’ombra, accolgo la luce che mi hai donato”. Nell’ombra, nell’oscurità più fitta, lui vide la luce, vide ciò che gli altri ancora non vedevano, compì il miracolo di stravolgere la storia umana, di sovvertire le regole comuni.

Gli dice la sua sposa salvata dall’onta:

Le profondità del firmamento, o mio amato, non ci sgomentano: sgomentano chi crede solo nelle tenebre.”5

Giuseppe non parla. Nelle tenebre, riflette. Ha i suoi giusti timori.

Guardo queste pareti scrostate, e non scorgo nulla. So che di fuori, più che una casa, sembra una tana. E non sono tane per esseri umani, anzicchè per le bestie, queste dimore? Per terra ci sono i resti del becchime di una gallina. L’aria entra tiepida o fresca, ora è freddo, un lume balugina a una casupola che come questa poggia su una sporgenza della roccia… Avrei voglia di affacciarmi, ma la vista dello stellato mi dà spavento. Mi fa capire quanto sia grande la nostra solitudine in mezzo a queste luci impossibili…”6

Ragiona. Agisce. Scava e scova luce. E se qualche volta crolla sotto il peso di una portata storica epocale, in questo tramestio interiore, in questo scavalco delle idee comuni, gli è a fianco Maria.

-Sta solo a te dire sì o no. Dovresti capirlo, tu che hai saputo rispondere alla voce di un sogno. È allora che si decide tutto; il resto conta come tante cose del mondo: il tragitto del tempo, le stagioni, i temporali -. La voce era decisa: - Non dovrei essere io a dirtelo. La tua non è stata rassegnazione, ma consenso. Virtù. E non ti resta che continuare come hai fatto: obbedire.

- D’accordo. Ma fino a quando?

- Non lo so. Nessuno ha mai contato le stelle di una notte. Le stelle sono come gli anni della nostra vita. Ma l’infinito, l’incomputabile, sta ancora più in là.”7

[…] - Che Dio, che è il solo che può farlo, ti illumini sempre.”8

Dio illumina lui, per salvare il Figlio e Maria.

Si dice sempre che sia Giuseppe l’uomo del silenzio, del passo indietro, dell’ombra. Per me è esattamente il contrario. San Giuseppe è l’uomo che “usa” l’ombra per fare luce.

Spesso, anche ora a distanza di secoli, nell’epoca tecnologica e scientifica, continuiamo a cercare consolazione nelle situazioni più tristi delle nostre vite comuni, dicendoci che in ogni cosa che accade dobbiamo intravedere un segno di Dio che agisce per il nostro bene. Volgi al bene, il male che ricevi. Non lasciartene intaccare. Così pensiamo, così diciamo a chi subisce un’onta, a chi sta male, a chi soffre, a chi implode.

Giuseppe, l’uomo rivoluzionario, per atto concreto fece lo stesso: usò l’ombra per proteggere, per amore. Volse al bene, il non concepibile sociale.

Sembra un paradosso, ma non lo è.

L’ombra serve a nascondere, a non far vedere, per avarizia cupiscente di beni personali e materiali.

A San Giuseppe l’ombra, l’altra parola usata in Patris Corde da me presa in considerazione, servì per proteggere la luce, l’evidenza, l’immateriale divino.

Non tenne nascosti Maria e Gesù per concupiscenza personale, per uso egoistico possessivo. Li tenne fuori dall’ombra dei riflettori, affinché fossero luce per gli occhi di pochi che potevano interpretare, in futuro, le loro vicende familiari sotto una nuova descrizione sociale. Avvolse Maria incinta sotto il suo mantello, proteggendola dai mormorii, dagli sguardi indiscreti, dai pettegolezzi e dagli scandali. Il suo silenzio non fu il silenzio dello sciocco, del cretinotto. Fu un silenzio di stile. Di cavalierato. Di garbo. Di bon ton. Mi domando: intorno a lui ci fu chi capì, chi approvò non per una soggezione da rabboniti compaesani che evitarono di parlare male di lui e di sua moglie, perché potevano scatenare le sue maschie ire? Ci fu chi approvò il suo fare? Qualcuno capì cosa fece e perché lo fece?

Già. Appunto.

Perchè lo fece?

Non lo fece per buonismo, per semplicità d’animo, per basso livello culturale. Lui capì. Capì che era in atto una rivoluzione, per mano sua. Una di quelle che segnano le epoche culturali, che demarcano i passaggi storici. Gli uomini non sono dei cavalieri e con le donne hanno poca pietà, nessun rispetto persino in epoca moderna, figurarsi allora.

Ma Giuseppe poteva salvare un bambino, poteva e doveva salvare una donna, poteva mostrare all’umanità una nuova rotta da percorrere, voluta da Dio. La strada della compassione, della tolleranza, del rispetto, della finezza culturale. Lo fece non per salvare la sua reputazione o quella dei suoi cari, non solo per quello. Lo fece per un fine più alto e nobile, per consegnare al mondo, cioè alla società, la rivoluzione della salvezza, la lenta modifica di una mentalità patriarcale e animalesca. Nell’ombra della discrezione, volse le sorti filosofiche, etiche, morali di un popolo e dell’intera umanità verso una concezione più umana e rispettosa della vita, una che iniziò a rispettare di più le donne e la fedeltà della vita coniugale vista con altri parametri, non con quelli dell’onore atavico del possesso verginale, altrimenti morte sia.

Perchè usò proprio l’ombra? Per diventare uomo “giusto”? Per vanagloria personale? Volgere il male al bene è così facile, così educatamente sociale, così adatto all’establishment di un certo ceto, al politically correct di una certa mentalità etica. Ma Giuseppe non era costretto da nessuna forma mentis. Non lo fece per sport. Non lo fece per moda.

La usò per quel motivo che tutti oggi conosciamo e che allora era soltanto inizio, tenebra e notte.

La usò perché tutti sapessero, dopo. Non della sua vicenda familiare, non di sua moglie incinta prima del tempo. Ma di cosa guardare oltre quel quadretto nella grotta, oltre quel soggetto velato dal cuneo di chiaroscuro. Usò l’ombra per convogliare tutta la luce su quel passaggio mentale, su quel nuovo obiettivo storico-antropologico-culturale. Lo usò nascondendo se stesso e la sua famiglia terrena, perché fosse centrale l’argomento della tesi, perché gli occhi e lo sguardo si concentrassero su quel punto focale di un’altra trinità. Quella non visibile, quella difficile da scandagliare, quella oltre la vista umana. La Trinità, l’altra famiglia, l’altro Verbo celeste nel Verbo terreno. Usò l’ombra come un mantello per proteggere Maria, per proteggere Gesù, per proteggere l’umanità terrena, così soggetta alle mode del mondo e alla loquacità pettegola, dando spazio all’evento ultraterreno unico e ultimo, affinché si compisse ciò che era da sempre scritto: “Sii adorato tra gli uomini / forma trimunere, Dio”9.

Tìndara Rasi


1Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 13
2I Vangeli di Natale. Una visita guidata attraverso i racconti dell’infanzia di Gesù secondo Matteo e Luca”, a cura di Gianfranco Ravasi, Ed. San Paolo, 1992, pg. 68-69
3 “L’ombra del padre – Il romanzo di Giuseppe”, Jan Dobraczynski, cap. 17
4Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 174-175
5Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 133
6 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 138
7 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 136
8 “Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine”, Ferruccio Ulivi, Ed. San Paolo 2005, pg. 135
9 “Il naufragio del Deutschland”, di Gerard M. Hopkins