venerdì 9 aprile 2021

 

Sale e sangria, di Pietro De Viola. E io che cito l’autore che cita se stesso

di Tìndara Rasi




Come ci si incontra, nella vita? Per background culturale, direi; e per assonanze.

Basta avere un gene al retrogusto papillogustativo francese ed è fatta. Non si può andare a esplodere di vita in Spagna sei mesi, e fondersi con catalani, baschi, galleghi. Se si va lì da Novara (non quella nordica, ma quella terronea), se si va lì da Barcellona (quella terronea, non quella esterronea), si diventa cittadini del mondo e le olandesine, le parigine, le castiglionesi (mezzo maremmane? non castigliane?), le si intercetta tutte. E un po’ stufa incontrare anche lì solo italiani, meridionali, non ci si va per quello, ma per gustarsi il mondo. Solo che se la tua lingua scolastica non è quella dell’universale egemonia culturale preponderante, non è giapponese, cinese, inglese, e tu parli solamente francese come L2, è attraverso quella lente che intercetti involontariamente il mondo.

Da anonimo ragazzo siciliano dall’animo puro che si donava a te, Dio, quel quasi senza nome se non dopo molte pagine, diventa Miguel o laconicamente un Miche’, alla napoletana. Non esiste più il ragazzo di prima. C’è un Virgilio camuffato da bigliettaio che indica altre possibilità, un Pau, sulla strada che gocciola bisbigli. E quel mondo immerge, sommerge. Si resta adesi alla sregolatezza del momento non ordinario, quello fuori dai confini che porta finalmente lontano dai noiosissimi clichè di bravo e tranquillo ragazzo di provincia. Come succede? Con intenzionalità. Come sedersi a tavolino e dire: ora scrivo un libro. E inizi, vertiginosamente, studiatamente, stappi la lattina della creatività che fa fsss, l’aria ti riempie il petto, fresca, senti il glicogeno scorrere. Passione pura, carnale, spregiudicata, sfrenata. Esplosione di botti della festa di fine anno. Bum.

Questo è l’intimo segreto che accomuna tutti gli scrittori. Accade così. Un giorno, improvvisamente, senti di voler prender in mano una penna, di riaprire il vecchio computer, di scrivere qualcosa, di andare nella tua Barcellona di Spagna personale, nel tuo Erasmus di ingurgitamento parolistico. Due righe… see... ma chi se la beve… Gira tutto, mani, cervello, idee, lampi, gorgoglii mentali come un maelstrom. Magari sei un insegnate che ha sempre amato la letteratura. E allora scrivi. Scrivi, scrivi, scrivi. Sempre, giorno e notte, senza fermarti, crollando per la stanchezza, risvegliandoti con la faccia sulle carte e la penna in mano, e seguitando a scrivere. Lo fai per mesi, con pochissimi momenti di pausa… Questo è il ritmo che vuoi dare alla tua vita. Sei mesi vivendo al massimo, su di giri, come quando dal messinese del profondo Sud vai a fare quel tuo Erasmus in Spagna.

Poi arriva lo slang francese, e no, qualcosa si inceppa, la vena creativa si affanna, si depotenzia, o si esponentizza. Quello slancio che ti fa scrivere a fine pagina 35 frasi intere tutte attaccate, senza spaziature, diventa doppia interlinea, si adagia, staziona con circospezione attorno ad una frase, si condensa in laghi di vischiosa prodezza artistica, appunti-poesie, frasi belle lumeggiate e lampeggiate, descrizioni arditissime, innovative, classiche. Che devi, assolutamente devi inserire da qualche parte nel libro, perché sono troppo belle per lasciarle fuori. Tu volevi una storia passatempo, dal tuo raptus creativo, qualcosa di leggero da scrivere nei margini di tempo. Ma la tua creatività ci tiene a donarti storie un po’ meno miserande tipo solo sesso, tanto sesso, solamente sesso, storie un tantino più faticosamente eterne. E allora ti impantani un po’, fermi il flusso del maelstrom, ricerchi, rileggi, rivedi, ripari, rappezzi, inserisci, cancelli, migliori... Non è l’antifranchista Celestino che non ti vuole aiutare a scrivere la tua tesi, a rallentare il tuo estro poetico. Sei tu da solo a farti questo, tu che tenti il raffinamento di te, ma perdi di grazia e di slancio e non vuoi. Di colpo ci si sente come chi debba seguire il proprio personale cammino, prestabilito alla nascita su rotaie fisse; chiunque si allontani dalla propria direzione, anche solo per un breve periodo, perderà l’allegria del vivere. Uno scrittore che perde la vena, il ritmo passionale, ha due motivi che lo incastrano, riconducendolo un attimo fuori dalla propria insensatezza che non lo fa né mangiare né vivere, o forse mangiare troppo e vivere troppo, sragionando, sregolandosi, sdoganandosi dalla propria provincialità emozionale, dal proprio tutto, dai binari direzionali.

Due fondamentali, stupidissimi motivi.

O l’amore.

O il lavoro.

Succede così anche all’università. Cominci a rallentare il ritmo degli esami dati, quando ti innamori davvero: hai altro a cui pensare, in quel momento. Cominci a rallentare quando invece di ammuffire dietro lo schermo del computer, scrivendo perché non hai alternative decenti per le tue serate fuori paesello, ti innamori e un senso alle serate ben più viscerale e conturbante lo consegni alla vita, non ai tuoi scritti. Oppure cominci a rallentare lavorando, perché la sera torni a casa con le tasche piene di stipendio ma senza un goccio di pazienza per due righe letterarie, manco una poesia breve stile haiku ti viene di cesellare, vivi di vita di fatica, non di vita immaginifica e surrogata.

Così arriva quella parte, in un libro, che ti ferma il ribollìo e te ne stai lì a pensare che non scorre più, la storia, come prima. Eri andato in Spagna (o in brodo di zizzole creativo) per scovare la Storia (quella da mettere nei libri, quella letteraria, per farla tu, la storia letteraria, per essere inciso tra i magnum). Ma prendi di mira la storia, quella con la s che non vuole né minuscola né maiuscola, la storia da vivere tutti i giorni, la storia della quotidianità, quella che ti riporta con i piedi per terra. La poesia solo a volte si manifesta in strofe, rime ed endecasillabi sciolti: la sua natura è di stupirci e bisogna portarsela davanti e dietro, dentro, sempre. Nella quotidianità, diventa efferatezza, fa solo perdere tempo in moine. Come dopo che una donna la si è già conquistata: niente più rose sul letto, niente smielate filastrocche amorose sussurrate sotto le stelle mentre si sta avvinghiati. Si passa al sodo, all’atto spurio, adulterino, frettoloso e spoeticizzato.

Sei a Barcellona, in Spagna, sei nel pieno di un coraggioso atto scritturale livido di eccitazione, con il cervello a mille e sbam, ti accorgi che non parli solo spagnolo, ma che conosci anche il francese e che due parole di altro stile nel libro ce le vuoi mettere, che lei, appena partorita dalla tua fantasia letteraria, merita udienza papale, e non basta una pagina fitta di amplessuosità, non basta un ritmo sincopato e velocissimo... Ci vogliono pagine distese, lenzuola d’amore, stropicciate, rivisitate, spianate, corteggiate, allungate, cesellate, studiate nei minimi dettagli. Non puoi scrivere di getto un libro se capisci che è bello, non puoi sorvolare su un amore se intuisci che è sangue. Conoscersi tra autore e personaggio è una nascita reciproca, nascosta nella donazione di sé, intensa come generatività continua, conduttiva, elettrica, surrettizia. Io scrivo di te, Viola, mezza francese e mezza castiglionese maremmana, conoscendo me, autore Pietro De Viola. Sono te perché tu sei in me come un acrostico tra le righe, tu sei ciò che penso, ciò che escogito dopo l’introduzione, sei il corpo centrale, sei la mia vena creatrice non più sgorgante e zampillante, ma incanalata e gestita. Il costante adeguamento della virilità alla femminilità, può portare alla creazione, alla poiesi, come un atto generativo che sfrutta ancora la primordialità istintuale del basso ventre (o dell’amigdala) e non ha bisogno di studiare sui Power Point lo schema fisso della perfetta struttura letteraria. Pulsione, come ideazione. Respiro, come creazione. No, non c’è bisogno di libri da studiare: quando nasce l’embrione di un libro che lievita spedito, senza artificiosità, nasce punto e basta. Il cemento si impasta con l’acqua, non ha bisogno di altro, per trasformarsi in malta.

Cosa ci spinge a tentare altro, dunque? La novità dell’amore eterno, quello che ci vorrebbe consegnare nell’olimpo letterario. Perché l’amore letterario tra uno scrittore e un personaggio, quando si affaccia all’uscio, è sempre nuovo e la novità ci attrae. L’amore, il grande motore del mondo, senza clock da automi informatici. Qualcosa del tipo io e lei che togliamo le batterie degli orologi e andiamo oltre la memoria di massa e gli ingranaggi dell’orologio carillon. Ma l’amore per il nuovo ci confonde, ci destabilizza, ci impastoia e ci rastrema. Tentiamo di miscelare il vecchio io con il nuovo, il vecchio diario con il nuovo, il vecchio stile letterario con il nuovo: l’eterna lotta di tutti, come tra un primo me e un secondo me, tra lo stronzo e il disperato. E alla fine, come prevedibile, non ci raccapezziamo. Ci fermiamo smarriti. Non fluisce più la linfa nelle vene creative, fa fatica, si incaglia malamente. Stiamo cinque, sei anni, con un relitto di libro in mano. Non osiamo, ci vuole troppa fatica, concentrazione, impegno per costruirsi letterariamente come un nuovo sé scritturale. Più facile arrendersi. Alla fine, stremati, non abbiamo la Storia. E neanche abbiamo fatto la storia. I fogli sono chiusi nel cassetto della scrivania, rasterizzati, untuosamente appiccicati. O sono spersi sul desktop di un computer, come un collegamento blog che vuole solo, disperatamente, essere ricliccato e riletto, riscritto, riaggiustato, completato, finito... solo quello. Ma l’autore ha perso i trasporti della linea viola, sta camminando a piedi tra un lavoro che non gli piace e un vento che gli fa svolazzare il cappotto, mentre le auto degli altri passano veloci e spostano l’aria dell’esistenza storica. Ogni tanto la sente, quella folata creativa. Ma c’è l’ordinarietà e l’ovvietà che va avanti, c’è il lavoro… Non si spiega come faccia a piacerci questo lavoro materiale, che per noi scrittori è deleterio come una vita di provincia e ci si sta bene, ma ogni tanto, per riprendere passione aurale ci vuole la presa del computer attaccata alla corrente elettrica, ci vuole la follia della gioventù bruciata tutta in sei mesi d’Erasmus in Spagna. Invece, si smette di prolificare, di produrre, come una grande negazione di se stessi. Un bluff. Se si continua a sprizzare passione da tutti i pori, il figlio viene partorito, l’atto poietico diventa compimento. Ma l’altro, il nuovo che appare, può essere anche inferno. E la frase di rito giustificatoria è allora: non ho tempo, perché mi assilli, creatività mia amata? Ho provato, ma non ci riesco, non mi appassiono più. Probabilmente ci è sempre mancato ‘sto figlio maschio, come al vecchio antifranchista, ci è mancata la conoscenza della lingua inglese, l’editore giusto, la verve, un pizzico di figlio che ci faccia genitori di queste quattro chiacchiere con il passato, di queste carte scritte, di questi racconti da stampare senza etichettarli come files in disuso. O forse no, ce l’abbiamo sempre in embrione, ‘sto figlio, ma non quagliamo, non partoriamo. Coviamo e basta. Una sorta di aborto letterario, che impiega anni a diventare libro, storia, actus vivendi. Ha un suolo, ma non attecchisce, non fruttifica, è apolide e senza fioritura. È necessario uno spirito superiore per elevarsi dalle secche volgari e ordinarie del desiderio di una bella auto, un conto in banca rispettabile, degli abiti, una casa, dei viaggi con gli amici. È necessario uno spirito raffinato per concentrarsi sulla vera essenza delle cose e liberarsi dal lusso. Ci vuole sangria, alcolica, spumeggiante, ma anche cristalli solidi di sale, piedi per terra, fatica, impegno dopo quella follia semestrale di passione letteraria, di corteggiamento delle meningi in amplesso con periferiche di input tipo tastiera wireless.

Attorno c’è un coro di fans letterari che aspetta: esci da questo corpo fisico, da questa terraglia, da questa ordinarietà burocratica; diventa luce, diventa parola, diventa vicenda. Cerca di farlo per le migliaia e migliaia di lettori come me, le migliaia e migliaia di nessuni, che vivono di digressione speculare e di intenzionalità intertestuale catulliana, o che aspettano un buon epillio alessandrino. Se un colore come il viola diventa smorto e non ha più nemmeno senso, Viola muore davvero. Viola l’autore, lo sphragis. C’è sempre Nicandro e Catullo classico nella tecnica dell’acrostico sphragistico e dell’arte allusiva che cita il citato autore, sei in ottima compagnia e tu lo sai che io lo so, che a me non la dai a bere, scrittore. Tu non sei superficiale o modernamente poco letterato. Fingi di essere leggerezza scritturale, ma hai limato molto sotto humus; soltanto, senza darlo a vedere. Vuoi giocare con me? Giochiamo. Quante citazioni di te ritrovi in questo mio scritto? Compito a casa: restituiscimi l’elaborato, mettendo il corsivo alle frasi citate da me di te. Se vuoi giocare, io ci sto. Ma l’arte allusiva dei grandi classici tu sottobanco me l’hai data. Non sei uno scrittore qualunque. E io… non sono un lettore qualunque. Ti ho intercettato. Vedi che ti sgamo, io con il mio nessuni? Vedi che se ci credi, qualcuno ti legge davvero dentro? Che ti restituisce il tuo impegno scritturale?

Non restare dunque imprigionato in altre impasse (o empasse?) Perché davvero, è vero: in un certo senso, se osservate da una particolare prospettiva, certe scene possono persino essere considerate romantiche. E dunque non solo possono, ma che davvero, alzo i calici e brindo, siano sul serio, tra congiuntivi e concessivi. Falla risuonare la tua parte creativa, la tua viola in Erasmus, sennò sarà lei prima o poi a fare fugone e accollarsi il suo bel gbecspaps, traducendosi in fasulla Layla. Accetta il germinatico che si fa prodotto fecondo. Non stare qui a pensare, autore. Non inghipparti altri dieci anni. Quante parole hai sprecato, ognuna diversa dall’unica che avrei voluto sentirmi dire… Invece siamo vivi e siamo molto di più che noi due, qui e adesso, in una vecchia foto nel cassetto. Siamo per sempre, siamo ovunque, camminando di spalle, in una foto mossa, presa di notte. Senti, che ti dice Viola la creativa in te? L’amore non muore, se vai a riprendertelo, facendo davvero il matto e l’artista. Tu aspetti sempre e solo che sia la tua creatività che ad un certo punto si scoccia della tua quotidianità e ti pianta lì una bizza, un escamotage per riacciuffare di passione il suo scrittore impantanato. Guarda che lei lo fa. Si finge morta. E quando uno è messo alle strette, credendo il computer con tutti i files andato definitivamente in corto circuito, quando vedi la tua parte razionale fagocitarti così tanto da farti improvvisamente esplodere, allora… messo alle strette, piangi il lutto del tuo aborto e con rabbia decisa, riprendi. Dal fondo, riprendi. Una vecchia foto non va lasciata a disperdere colori e sbiadire nel cassetto, va fatta vivere, la favola va conclusa di vissero felici e contenti davvero, e ne risenti l’urgenza tremenda. E ti dai del demente, per tutto il tempo perso. Anni, accidenti.

Invece, la creatività non va fatta prostituire in nome dell’ordinarietà. Ogni fotogramma, ogni fatto, anche quello miserrimo di cinque, dieci anni fa, vive, se tu lo rendi eterno. Scrivi. Scrivi punto e basta. Che se la guardo da questa prospettiva, tu cerchi l’esotico di sangria español col sale, lei si assesta sulla crème brûlée. Ma tutte le vite, tutte le scene, se osservate da una particolare prospettiva, possono essere considerate romantiche e chiederci dall’atto della loro trascrizione su libro: cari miei amichevoli fan… A proposito: sapevate di essere già in tre? Sicuro siete finiti qui per sbaglio. Ok, fa nulla, vi perdono. Però tornate, eh?

E noi rispondiamo che torniamo. Noi torniamo, autore. Siamo francesemente romantici. Pendendo dalla tua tastiera di pc, dal tuo prossimo flusso di estro creativo da recensire, aspettiamo il tuo scribendum est e noi la nostra parte di scena da vivere, leggendoti.

Non farci agonizzare di troppa attesa.



Copyright 2021 – Tìndara Rasi

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Dopo l'enorme successo di "Alice senza niente", pubblicato nel 2011 da Terre di Mezzo, Pietro De Viola torna alla ribalta con "Sale e sangria", edito da Oligo Editore. De Viola ha vissuto per diverso tempo a Grosseto. Attualmente vive e lavora in Lombardia.